Barchetto restaurato da Yahchtline 1816 SpA e donato dalla famiglia Frassi, collocato a Uliveto Terme

Simbolo di un paese, della sua storia e di una comunità intera
Data:

08/07/2022

© Comune di Vicopisano - Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

Descrizione

Il Barchetto, storica imbarcazione, uno dei simboli di Uliveto Terme

Inaugurato dall'Amministrazione Comunale venerdì 8 luglio 2022, grazie a un progetto dell'associazione culturale Amos

Questa imbarcazione, sapientemente restaurata, viene qui posizionata (a Uliveto Terme, all'intersezione tra Via XX Settembre, Via delle Fornaci e Lungarno Garibaldi), dall'Amministrazione Comunale di Vicopisano, in memoria di tutti coloro che, per generazioni, hanno usato il barchetto per trasportare persone da una sponda all'altra del fiume Arno.

Insieme ai navicelli, con i quali gli ulivetesi trasportavano blocchi di pietra, mucchi di pietrisco e merci a Pisa e a Livorno, sempre attraverso la navigazione fluviale, con arte e fatica, i barchetti sono splendidi simboli di un paese, della sua storia e di una intera comunità.

Fanno rivivere il ricordo, che etimologicamente significa proprio 'riportare al cuore', di coloro che, sfruttando abilmente i venti e conoscendo bene il fiume, facevano avanzare queste imbarcazioni a beneficio degli altri, delle persone che dovevano spostarsi, dello sviluppo del proprio paese e del proprio territorio e a sostegno delle loro famiglie.

Oggi ammiriamo questo barchetto come se fosse un'opera d'arte, in effetti è molto bello, e ciò che evoca giunge fino a commuoverci, pensando a tutti gli uomini che, con sforzo intenso, grande passione e notevoli capacità e impegno, hanno attraversato per anni l'Arno, interpretando correnti, mutazioni del tempo e sapendo, alfine, il nome di ogni stella.

- Restaurato da Yachtline 1618 SpA

- Donato dalla famiglia Frassi alla quale appartiene, Franco, l’ultimo dei grandi maestri d’ascia della nobile tradizione ulivetese.

Un racconto di Attilio Cioli, di Uliveto Terme, del 1995... per conoscere meglio la storia e le storie, le vite, per trarne conoscenza ed emozioni... memoria. Grazie al nipote Cristiano Frassi per averlo condiviso.

Avanti guerra a Uliveto ne esistevano venti-venticinque; anche il mio babbo Antonio, detto Tonino,
ne possedeva uno.
Il navicello era una barca a fondo piatto, questo gli consentiva di navigare anche in acque basse 15-20 cm, in fiumi, fossi e laghi e gli consentiva anche il trasporto di materiali da costruzione: pietre, pietrisco, rena, laterizi, ecc...

Questi navicelli erano più piccoli di altri che esistevano a Calcinaia, Cucigliana, S.Giovanni e Porta a Mare; quello del mio babbo era della categoria medio-piccola, aveva una portata di 18 tn / 180 quintali, il pescaggio a vuoto era di 15 cm, a pieno carico di 120-150 cm. La struttura era di rovere, quercia e pino; era lunga 10-12 m e larga 3-3.5 m circa.

Questa era l’attrezzatura del navicello:
- un albero di 6-7 m
- un pennone “abetella” lungo 5 m per lo spiegamento delle vele
- due vele: una randa detta pollaccone e una più piccola detta pollacconcino
- due remi e tre stanghe o pertiche
- un’ancora con relativa fune
- una fune da traino detta arsaio e funi varie che stavano sotto “coverta” (prua).

Sempre sotto coverta, che era larga circa 4 m, c’era una trapunta di sfoglia di granturco, una pentola sempre tutta nera dal fumo, 4 o 5 fiaschi d’acqua potabile, 4 o 5 tra cucchiai e forchette, una paiola di ferro per fare fuoco con le legna e due candele; la coverta serviva a tutto: dormire, mangiare e ripararsi dal freddo e dalla pioggia.

La mia famiglia era composta da cinque persone: mio babbo Antonio, la mamma Gesualda, tre figli maschi e una sorella; il maggiore era Oddino del 1902, poi Saffo del 1908, io Attilio del 1920 e Sieve del 1926. Come noi, altre famiglie di Uliveto (i Frassi, i Taglioli, i Taccola e i Castellini) ricevevano il sostentamento da queste barche. I capifamiglia avevano soltanto il pensiero di far viaggiare questi navicelli per portare un piatto di minestra e un tozzo di pane alle mogli e ai figli che erano a casa, e non c’erano alternative.

Allora (1930-1940) era in costruzione il porto nuovo di Livorno, che è tutt’ora in piena attività, e
occorreva proprio il materiale della nostra cava di pietra. Ecco uno dei tanti viaggi fatti in quel tempo.

Io e i miei fratelli Oddino e Saffo, loro adulti ed io ragazzo, avevamo il navicello ormeggiato ad una delle tante campanelle appese al muro d’Arno, ancora visibili. Il carico dei navicelli era proprio dirimpetto alla cava; lì i materiali edili venivano portati da carretti trainati da cavalli e ammucchiati. Il navicello veniva accostato ai mucchi e iniziava il carico a mano.

Io e i miei fratelli caricavamo pietre del peso di 5-30 kg; il tempo di carico era di circa due ore, due per e mezzo, dipendeva dall’altezza dell’Arno: l’Arno non doveva superare i 4 m d’altezza a causa dei due ponti di Pisa che allora erano più bassi di quelli attuali, specialmente quello della Fortezza e non doveva essere inferiore ad un metro altrimenti il navicello non aveva acqua a sufficienza per poter navigare.

Quando il navicello era a pieno carico (180 quintali), mia mamma ci portava qualcosa da mangiare prima di affrontare il viaggio verso Livorno: un po’ di minestra, un po’ di pane e qualche altra cianfrusaglia. Giravamo il navicello con la rua verso il mare e via giù con la corrente a favore alla velocità di 7 km/h fino a Porta a Mare (18 km): lì c’era sosta obbligata per la chiusa chiamata “sostegno” che comprendeva due cateratte, una sulla riva dell’Arno, l’altra dentro il canale dei Navicelli.

Durante le piene dell’Arno restava chiusa e veniva aperta quella del canale. I navicelli che rientravano da Livorno dopo aver scaricato il materiale, entravano nel sostegno che aveva una portata di 15-16 navicelli; venivano fatte due
“sostegnate” al giorno, alle otto del mattino e alle due del pomeriggio: alle otto il custode abbassava la cateratta del canale e alzava quella dell’Arno così i “vuoti” uscivano nel fiume e cominciavano la risalita verso Uliveto, 18 km contro corrente e all’arsaio (al fune di canapa del diametro di un centimetro fatta appositamente per il traino dei navicelli; una parte veniva fermata al navicello e una alle spalle dell’uomo e c’erano due coppie, una per spalla). Ora che i vuoti erano in navigazione verso Uliveto, toccava a noi “carichi” entrare nel sostegno e quando tutti i navicelli erano dentro veniva abbassata la cataratta dell’Arno e alzata quella del fosso e il viaggio continuava verso Livorno.

Passata Porta a Mare, si stendeva l’arsaio e via così per 12 km; in circa quattro ore eravamo ala cantiere edile del porto per lo scarico che durava circa due ore; il capo cantiere ci diceva dove sistemare le pietre, poi misurava il metraggio e faceva un buono per 11 mc che serviva per riscuotere dalla ditta delle cave il trasporto effettuato. Una volta pronti, si cominciava il viaggio di ritorno; ci si avviava verso il Calambrone che ormai era quasi buio e lì si ormeggiava. Si accendeva sotto la prua un po’ di fuoco e si consumava l’ultimo resto di pranzo rimasto; dopo una breve chiacchierata si stendeva la trapunta di sfoglie e ci si coricava esausti dalla fatica del giorno, io, il più piccolo, in mezzo ai miei fratelli.

Per il mattino dopo mi avevano dato disposizioni: loro si sarebbero alzati alle cinque del mattino per poter uscire alla prima chiusata che era alle otto così da arrivare a Uliveto prima di sera altrimenti avremmo impiegato un giorno in più, io avrei potuto dormire sotto prua, dopo dovevo sistemare le vele con le quali ci eravamo coperti durante la notte e riporle nei sacchi di iuta.

Quando mi svegliai, i miei fratelli avevano steso l’arsaio ed eravamo già a metà strada, ai Mortellini; io riposi le vele nei sacchi di iuta, sistemai il pagliericcio di sfoglie e misi al fuoco quella pentolaccia che era già servita altre volte per preparare il caffè. Dopo un quarto d’ora l’acqua nera era pronta; i miei fratelli tirarono il navicello a riva e si bevve quella specie di caffè alla svelta perché le otto si avvicinavano in fretta e il custode della cataratta era puntuale: se c’eri bene, se no abbassava.

Arrivammo alla chiusa che mancavano cinque minuti, il tempo appena per comprare con quei pochi soldi che mio fratello maggiore aveva un po’ di pane e un pezzo di mallegato o un po’ di carnesecca da un norcino che stava proprio di fronte al sostegno. Lì c’era anche un castagnacciaio, il Seghetti: anche lui contribuiva a levarci quella maledetta fame. Usciti dal sostegno si entrava in Arno; io e mio fratello stendemmo l’arsaio: dovevamo risalire i ponti di Pisa e non era cosa facile a causa della forte corrente.

Dopo tanta fatica, arrivati alle Piagge, ci fermammo dieci minuti per alzare l’albero della vela sulla cui cima c’era una piccola cariola dove veniva infilato l’arsaio perché stesse più in alto dei cespugli o delle canne. Ci demmo il cambio: i miei fratelli all’arsaio ed io al timone per guidare il navicello, legato con una cordicella alla poppa per la paura di cadere in Arno. Ci aspettavano sedici chilometri di dura fatica; si raggiunse san Michele, poi Riglione, Ghezzano e Colignola dove si sostava una mezz’ora per mangiare quel misero resto di cibo e poi via di nuovo per Mezzana, la spiaggia di Pettori, la Mezza luna, il ponte a Caprona e finalmente, esausti e affamati, si arrivò al Poggio, alla solita campanella da dove eravamo partiti: erano le sedici del pomeriggio. Mia madre, che sapeva del nostro arrivo, ci aveva preparato un po’ di minestraccia e dei fagioli.

Io ho descritto questo viaggio fatto con il tempo buono, ma quando capitava il tempo cattivo con vento, freddo, neve e pioggia allora non era più un viaggio ma un calvario.
Per me continuò così fino al 1940 quando fui chiamato militare e destinato al II° Reggimento Pontieri a Piacenza. Il 10 giugno scoppiò la guerra contro la Francia e l’Inghilterra; nel 1941 iniziò la guerra di Russia e fui mandato là, nella steppa ghiacciata dell’Ucraina. Con tanta fortuna, ma proprio tanta, dopo diciotto mesi riuscii a tornare in Italia; dopo un mese di licenza, rientrai a Piacenza ed ero lì quando, il 31 agosto 1943, Pisa subì un pesante bombardamento americano con centinaia di aerei: Porta a Mare venne completamente distrutta con migliaia di morti e vennero distrutti anche tutti i navicelli del rione e la chiusa.

Quelli di Uliveto erano sparsi un po’ lungo l’Arno, inattivi; nel periodo 1943/44 furono ormeggiati tra il ponte di Caprona e Uliveto e lì rimasero fino all’agosto del 1944 quando sull’Arno arrivò il fronte. I tedeschi schierati sulla riva destra con mine e bombe a mano, gli americani sulla riva sinistra con mitragliatrici e mortai completarono la totale distruzione.

Ora, essendo anziano e con qualche problema fisico, a volte mi vado a sedere sulla sponda dell’Arno e guardo con malincuore quelle campanelle ancora appese al muro, e l’Arno che scorre lento verso il mare, mi ricorda la mia triste giovinezza passata tra miseria e stenti di ogni genere.

Addio, NAVICELLO!!!!

Classe 1920. III elementare.

Attilio Cioli - Uliveto Terme, lì dicembre 1995.

L'intervento di Alessandro Frassi, presidente dell'associazione culturale Amos, in occasione dell'inaugurazione

La presente opera si colloca all’interno del Progetto AMOS, ovvero fa parte di una serie di iniziative a carattere storico-culturale che da qualche anno la nostra piccola associazione sta portando avanti in stretta collaborazione con l’Amministrazione Comunale. L’obiettivo principale della nostra associazione è quello di mantenere in vita appunto il patrimonio storico-culturale della nostra comunità attraverso la ricerca di documenti, foto e video che raccontino il nostro paese. Per questo oggi, 8 luglio 2022, per noi è un grande giorno, e vogliamo ringraziare.

- Tutte le associazioni e le persone presenti
- Cristiano Frassi per aver messo a disposizione il racconto di suo zio, Attilio Cioli, classe 1920, facente parte di una famiglia di navicellai ulivetesi (potrete trovare il racconto integrale su questa pagina web, richiamata dal QR Code riportato sulla targa vicina al barchetto).
- Giovanni e l’associazione Vico Verde per la cura dell’area interessata
- Il Sindaco Matteo Ferrucci e il Vicesindaco Andrea Taccola per aver seguito e coordinato in prima persona la realizzazione di questa opera.
- Yacthline per l’opera di restauro, eccezionale.
- Giuseppe e tutta la famiglia Frassi per aver donato l’imbarcazione alla comunità.

Con Giuseppe, figlio di Franco, ultimo maestro d’ascia, ho trascorso la mia infanzia, e mentre vi parlo mi rivedo piccolino, con la merenda in mano, a far domande in mezzo alle imbarcazioni che venivano realizzate.

A tutti voi, a nome del paese di Uliveto, vogliamo dire grazie, perché attraverso quest’opera il nonno potrà raccontare al nipote e il nipote potrà fare domande al nonno su cosa rappresenta questa imbarcazione per il nostro paese; avete garantito una continuità di memoria tra generazioni, avete fatto sì che molti racconti e aneddoti legati all’Arno, ai barchetti e ai navicelli continuino a vivere ancora oggi nelle nuove generazioni e in quelle che verranno.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Ultimo aggiornamento: 12/04/2023 22:16

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